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martedì 25 giugno 2013

Potevano salvare Moro

martedì 25 giugno 2013
06:03 | Pubblicato da admin | 
Il giorno prima di morire, Aldo Moro era a un passo dalla salvezza: le forze speciali del generale Dalla Chiesa stavano per fare irruzione nel covo Br di via Montalcini, sotto controllo da settimane. Ma all’ultimo minuto i militari furono fermati da una telefonata giunta dal Viminale: abbandonare il campo e lasciare il presidente della Dc nelle mani dei suoi killer. E’ la sconvolgente rivelazione che Giovanni Ladu, brigadiere della Guardia di Finanza di stanza a Novara, ha affidato a Ferdinando Imposimato, oggi presidente onorario della Corte di Cassazione, in passato impegnato come magistrato inquirente su alcuni casi tra i più scottanti della storia italiana, compreso il sequestro Moro. Prima di passare il dossier alla Procura di Roma, che ora ha riaperto le indagini, Imposimato ha impiegato quattro anni per verificare le dichiarazioni di Ladu, interrogato nel 2010 anche dal pm romano Pietro Saviotti.
Decisive, a quanto pare, le testimonianze degli ex “gladiatori” sardi Oscar Puddu e Antonino Arconte, l’allora agente del Sismi che tempo fa rivelò di 

aver ricevuto da Roma la richiesta di contattare in Libano i palestinesi dell’Olp per favorire la liberazione di Moro, ben 14 giorni prima che lo statista venisse effettivamente rapito. Secondo il brigadiere Ladu, all’epoca semplice militare di leva nei bersaglieri, la prigione romana di Moro, in via Montalcini 8, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane. Non solo: «L’8 maggio del 1978 – scrive  Piero Mannironi su “La Nuova Sardegna” – lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto, e il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento – continua Mannironi – la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer, tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale».
Il giudice Imposimato, ora avvocato, conobbe il super-testimone Giovanni Ladu soltanto nel 2008: «Si presentò nel suo studio all’Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante». Il brigadiere delle Fiamme Gialle aveva scritto un breve memoriale, nel quale sosteneva di essere stato con altri militari a Roma, in via Montalcini, per sorvegliare l’appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Dc. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l’8 maggio, alla vigilia dell’omicidio di Moro. Perché Ladu ha atteso ben trent’anni anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto – ha detto a Imposimato – ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto, ma oggi 

spero che anche altri, tra quelli che parteciparono con me all’operazione, trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro».
Ladu ha raccontato che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna per il servizio militare. Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia, vicino all’Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione: sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo, e Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, «era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono.
Il racconto di Ladu è ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, micro-telecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti. Per mimetizzarsi, i giovani militari di leva indossavano tute dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di “Baffo”, poi riconosciuto come Mario Moretti, che entrava e usciva sempre con una valigetta, o della “Miss”, Barbara Balzerani. Vestito da operaio, un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l’impianto delle telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Invece di premere 

l’interruttore della luce, il brigadiere sardo si sbagliò e suonò il campanello. Aprì la “Miss” e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell’acqua.
Un racconto agghiacciante nella sua precisione, continua il reporter della “Nuova Sardegna”. Nell’appartamento sopra la prigione di Moro erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito – ricorda – che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anche se erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montata una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un’infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti, nel blitz delle teste di cuoio, le unità speciali antiterrorismo dei carabinieri di Dalla Chiesa.
«L’8 maggio tutto era pronto – dice ancora Ladu – ma accadde l’impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell’irruzione, ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti.
Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire». Ladu ha raccontato di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata giunta dal ministero dell’interno. Mentre smobilitavano, un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni». Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu avrebbe riconosciuto uno degli ufficiali che coordinavano l’operazione: il 

generale Gianadelio Maletti, ex capo del controspionaggio del Sid, che i militari in quei giorni avevano soprannominato, per la sua pettinatura, “Brillantina Linetti”.





Imposimato è rimasto inizialmente perplesso e diffidente: il racconto di Ladu sconvolge tutte le esperienze investigative precedenti, ne annulla tutte le certezze e, soprattutto, pone un problema terribile: bloccando il blitz, qualcuno avrebbe quindi decretato la morte di Aldo Moro. «Per quattro anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri», aggiunge Mannironi. «Fino a quando non comparve il “gladiatore” Oscar Puddu». Grazie all’ex agente della “Gladio”, il quadro di quei giorni drammatici del 1978 è parso completarsi, trovando una nuova credibilità. Nel frattempo, lo stesso Imposimato aveva conosciuto altri ex “gladiatori” sardi, Antonino Arconte e Pierfrancesco Cancedda, e ascoltato i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro: «Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro». Arconte, in particolare, ricorda di aver personalmente consegnato, a Beirut, l’ordine di contattare l’Olp per stabilire un contatto con le Br, prima ancora del sequestro Moro. L’uomo a cui all’epoca Arconte consegnò il dispaccio, il colonnello Mario Ferraro, del Sismi, anni dopo fu trovato morto nella sua 

abitazione romana, in circostanze mai chiarite.





«Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica», osserva il giornalista della “Nuova Sardegna”. «Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla». Ma perché il Sismi per una missione così delicata scelse di utilizzare quel manipolo di ragazzi inesperti? «Vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi». Inoltre, non erano soli: secondo Ladu, erano controllati dal generale Musumeci, dai suoi uomini e da 007 che parlavano inglese. Resta da capire chi avrebbe fatto quella telefonata dal Viminale che, secondo questa ricostruzione, avrebbe condannato a morte Aldo Moro. A fermare Musumeci, conclude Mannironi, potevano essere solo Cossiga, ministro dell’interno, o Andreotti, presidente del Consiglio. Secondo Oscar Puddu, il generale Dalla Chiesa insistette per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e Cossiga. «Lo convocarono a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente». Come si sa, Dalla Chiesa fu poi trasferito a Palermo, dove fu ucciso in un agguato organizzato da Cosa Nostra.


Ombre sulla morte di Moro, artificieri nell'R4 un'ora prima della telefonata dei brigatisti

Rivelazioni choc degli antisabotatori: "Arrivammo in via Caetani alle 11". Poco dopo arrivò anche Cossiga. Ma la telefonata delle Br è delle 12.13
Non sono mai stati interrogati e se ne lamentano perchè hanno molto da raccontare gli antisabotatori che per primi arrivarono all’R4 rossa, con il corpo di Moro nel bagagliaio. Nel libro La bomba umana, pubblicato di recente, Raso aveva lasciato indeterminata la questione degli orari che ora chiarisce dopo trentacinque anni. La questione è rilevante perché la telefonata dei brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda che avvertiva dell’uomo chiuso nel bagagliaio della macchina è delle 12.13. Intorno alle 11 gli artificieri arrivarono in via Caetani per controllare che l’R4 non fosse una trappola esplosiva. Fu Raso il primo a entrare nella macchina e a trovare sotto la coperta il corpo dell'ex presidente del Consiglio. Poco dopo arrivò anche Francesco Cossiga, che finora si sapeva essere giunto in via Caetani solo poco prima delle 14 e quando Raso, sceso dalla macchina, comunicò che dentro il bagagliaio vi era il cadavere Moro, non vi fu alcuna reazione da parte dell'allora ministro dell'Interno. "Sembrava che sapessero già tutto", ha commentato Raso sottolineando che Cossiga e un certo numero di alti funzionari assistettero alla prima identificazione del corpo ben prima delle famose riprese di Gbr che sono state girate a cavallo delle 14. L'ex titolare del Viminale si recò, infatti, due volte in via Caetani. La R4 fu ripetutamente aperta dai due sportelli laterali come testimoniano le foto a corredo di questa inchiesta. "Quando dissi a Cossiga, tremando, che in quella macchina c’era il cadavere di Aldo Moro, Cossiga e i suoi non mi apparvero né depressi né sorpresi come se sapessero o fossero già a conoscenza di tutto", ha spiegato Raso all'Ansa ricordando che il sangue sulle ferite di Moro era"fresco". "Più fresco di quello che vidi sui corpi in Via Fani, dove giunsi mezz’ora dopo la sparatoria".La morte di Aldo Moro non è ancora una questione per gli storici. Vitantonio Raso, il giovane antisabotatore che arrivò per primo in Via Caetani, rivela che la sua opera fu richiesta ben prima delle 11 del 9 di maggio e che arrivò davanti alla R4 amaranto in via Caetani poco dopo quell’ora.

Raso fornisce la prova che le cose il 9 di maggio non andarono come finora si è raccontato: "Sono ben consapevole. La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere, sapeva. Ne parlo oggi per la prima volta, dopo averne accennato nel libro, perchè spero sempre che le mie parole possano servire a fare un pò di luce su una vicenda che per me rappresenta ancora un forte shock. Con la quale ancora non so convivere". Raso non è mai stato interrogato. Dal Maresciallo Giovanni Circhetta l’altra novità: sul sedile anteriore della R4 c’era una lettera. Circhetta è sicuro. E si chiede che fine abbia fatto.


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